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John Quiggin: il socialismo con una sua tempra, l’unica alternativa nel 21° secolo.

13 ottobre 2017

A seguito dell’inaspettato risultato delle General Election in Gran Bretagna lo scorso giugno, che ha visto il Labour di Corbyn raggiungere il 40% dei voti espressi, ferve nel mondo anglosassone il dibattito su come tradurre con politiche economiche tangibili, senza che queste siano da ostacolo alla crescita, l’attuale montante consenso democratico alternativo al corrente modello neoliberista. D’altronde la comune sensazione da parte della stampa che questo processo di crescita – almeno nel Regno Unito – sia ormai inarrestabile, attiva ancor di più il confronto per come prepararsi alla “grande svolta”. In verità, è da circa un anno, dopo il successo di Sanders e la sconfitta della Clinton, che circolano negli USA idee, progetti eterodossi di vario tipo, in una gamma che va dalla “economia responsabile” di Reich alle bislacche concezioni dei neo-comunardi.
Però, a tale proposito, se si esclude la Mazzucato con il suo “Stato innovatore”, ben pochi altri grandi “calibri” delle scienze economiche hanno oltrepassato il confine della critica nei confronti dell’ortodossia dominante per avventurarsi nel regno della proposta. Sennonché, la scorsa settimana comparve sulle pagine del Guardian un lungo articolo vergato da una delle più note figure neokeynesiane viventi: l’australiano John Quiggin https://en.wikipedia.org/wiki/John_Quiggin . Ovviamente, il tenore e la nettezza delle valutazioni-proposte di Quiggin ha elevato la qualità dell’approfondimento, non solo sul versante teorico, al tal punto che a circa dieci giorni dalla pubblicazione del testo lo spazio destinato ai “comment” del quotidiano di Manchester continua incessantemente a traboccare di risposte.


Considerata la notorietà dell’economista di Adelaide e il contenuto del suo articolo c’improvvisiamo a riassumerlo per sommi capi. Pur essendo colloquiale nella stesura, il testo per essere capito nella sua interezza necessita di una attenta lettura, in quanto la presenza di alcuni rimandi scientifici, dati dall’autore per scontati, nonché l’esposizione di molteplici abbozzati spunti concettuali, non ci facilitano un accurato processo di sintesi.
Quiggin invita sommessamente l’élite economica orientata a sinistra a elaborare quanto prima modelli applicativi adatti e confacenti a reggere l’imminente onda d’urto socialista. Egli comprova la sua tesi citando il fatto che gli attuali 60% di giovani inglesi e americani hanno votato nelle ultime elezioni rispettivamente per il Labour e per Sanders. Tuttavia, contemporaneamente, sgombra il campo da puerili semplificazioni, giacché egli ritiene che questa reiterazione del socialismo si contraddistingua per la sua diversità, sia rispetto alla vecchia concezione dirigista e pianificata, sia nei confronti della sua ultima versione “soft” del New Labour o Terza Via, che dir si voglia. Proprio in relazione a questa seconda esperienza, i cui interpreti sono stati formati nella convinzione della superiorità del mercato a fronte del potere esercitato dal governo, Quiggin sostiene che da loro non c’è d’aspettarsi alcun aiuto, poiché costoro sono completamente assuefatti al precedente ordine. Insomma, sembra dire l’autore, citando espressamente i suoi colleghi (Krugman, Stiglitz, Picketty): è tempo di cominciare a pensare che dalle parole bisogna far seguire i fatti.

Interpretando la nascosta “impazienza” del teorico australiano si deduce chiaramente che egli consideri questa prossima temperie socialista non “strutturata”, e vagamente utopica. Secondo il suo parere si tratta principalmente di un fenomeno di reazione ai disastri che ha compiuto il capitalismo finanziario negli ultimi 40 anni, e proprio a causa di ciò essa necessita rapidamente l’edificazione di un ancoraggio solido, considerato i nuovi scenari economici che si palesano di fronte a noi, oggi e nell’immediato futuro, totalmente diversi rispetto a quelli presenti nel secondo 900. Sennonché, Quiggin non si limita a perorare l’urgenza, egli propone una linea d’azione secondo cui lo stato di piena occupazione degli anni 60/70 sia ancora possibile a patto che il lavoro attuale si adatti ai cambiamenti tecnologici e sociali che si sono evoluti in questi ultimi 60 anni. Quindi, è d’obbligo un approccio lavorativo flessibile che permetta “i più svariati modelli di vita e di lavoro del 21° secolo”; considera altresì l’introduzione di un reddito di cittadinanza (Universal Basic Income), a condizione che questo sia inferiore alla media dei salari reali. Infine, citando Atkinson, dà il suo benestare a una terza opzione di sostentamento del reddito con il nome di “reddito di partecipazione” per coloro che “intraprendono un lavoro di volontariato a beneficio della comunità”. Non fornisce spiegazioni sulla contemporaneità o meno delle tre direttrici, l’importante che la forza lavoro sia impiegata a pieno regime indipendentemente dalla sua particolare specificità.

Leggendo il testo si coglie l’impressione che l’economista australiano si rifaccia non solo a Keynes ma anche in parte a Minsky e successivamente a Wray, secondo cui per sconfiggere la povertà (precariato e bassi livelli salariali) lo Stato deve assumere una totale responsabilità e deve fungere come “employer of the last resort” (imprenditore di ultima istanza) arrivando così a coprire quella frazione incomprimibile di disoccupazione che sarà sempre tale, poiché il correre “geometrico” della tecnologia renderà sempre inadeguati i processi di apprendimento del singolo lavoratore rispetto alle tipologie di lavoro che esisteranno in un dato momento.
Quiggin auspica che il ritorno a uno Stato “facilitatore” e fornitore anche di lavoro non debba essere più un tabù. Che lo si faccia sia attraverso un mirata politica fiscale verso il settore privato o quello sociale sia come assuntore diretto non è importante, serve invece che si prendano rapide decisione a riguardo. Diversamente, dovremo affrontare una sempre maggiore disuguaglianza, uno sfaldamento dei vincoli di comunità, con le drammatiche conseguenze di fibrillazione politica, i cui danni in termini di esternalità negativa saranno senz’altro maggiori di quanto sarebbero i costi per garantire una piena occupazione. Stesso ragionamento viene fatto per la ri-nazionalizzazione di quelle attività che hanno come scopo la fornitura di beni pubblici. Egli lo giustifica enumerando una serie di fallimenti che hanno coinvolto aziende, i cui capitali da pubblici per volontà politica sono passate in mani private.

Quiggin non dice cose nuove, basterebbe rileggersi il Minsky degli anni 70. Infatti, molte delle affermazioni contenute nell’articolo le troviamo nei saggi del teorico americano scomparso. Tuttavia, ciò che appare insolito è la dichiarazione di una netta rottura nel campo della sinistra, in cui finora sono prevalse tanto il suo diffuso “quietismo” querulo quasi arrendevole al cospetto del moloch del neoliberismo quanto, all’opposto, il suo vociare senza senso e soprattutto privo di idee alternative di contrasto. In aggiunta, fatto per nulla trascurabile, tale presa di posizione così energica, che in passato sarebbe stata relegata in qualche sconosciuta pubblicazione di nicchia, compare lungamente attesa su un vettore d’informazione di portata internazionale (Guardian), e per giunta esplicitata da un economista che gode nel mondo anglosassone un indubbio prestigio.

Come si affermava in precedenza, il teorico di Adelaide mette in guardia sulla irriproducibilità delle politiche economiche del secondo dopoguerra: se prima la struttura della società era basata principalmente sulla direttrice “produzione – consumo”, oggi, la rivoluzione tecnologica ha reso le forme di organizzazione economiche dipendenti principalmente dai servizi. Senza contare lo sviluppo di internet e dei social media, i quali hanno estromesso la rigidità fisica e oraria del lavoro.
Parallelamente, qualora si immaginasse un 21° secolo dominato dal socialismo dobbiamo tenere conto di una più ampia ed equanime gamma di attività economiche tra loro interconnesse, che non sono presenti nel corrente costrutto del capitalismo finanziario. Allo stato attuale, sostiene Quiggin, è il “big business” con le sue grandi corporation a prevalere, le quali hanno dettato un processo di concentrazione di mercato e contemporaneamente ridotto il potere di contrattazione della forza lavoro, da cui si rileva in occidente una stagnazione dei salari, una povertà galoppante, e internazionalmente una riduzione della crescita globale.

Tuttavia, osserva Quiggin, non è solo sufficiente “rovesciare” il neoliberismo, senza un impegno volto a creare un mondo meno competitivo e più partecipato, poiché l’obiettivo di questo nuovo socialismo dovrà essere quello di crescere in modo differente rispetto al passato: più egualitario e soprattutto più sostenibile. Nel caso specifico, l’economista australiano evoca i temi già ampiamente dibattuti dalla cosiddetta “economia evolutiva” (Mazzucato, Jacobs, Kellen, Lazonick), che sebbene da qualche anno vengano sottoposti all’attenzione dell’opinione pubblica, essi sono completamente ignorati, proprio dalla quella classe politica in carica che si professerebbe d’ispirazione socialista.
L’accesso gratuito alle fonti d’informazione (open-source) è la conditio sine qua non affinché i vari soggetti creino valore, sottolinea l’economista di scuola keynesiana, e quanto più essa è libera dagli attuali vincoli d’interesse economico privato, tanto maggiore sarà il beneficio prodotto. Anche in questo caso Quiggin affida al sistema pubblico il compito non tanto del controllo – ciò sarebbe un atto illiberale – quanto quello della fruibilità delle reti, siano queste immateriali (internet) o semplici legami tra gruppi d’interesse. Infine, egli non dimentica di considerare le attività di tipo sociale svolte dalle associazioni di volontariato, dalle NGO, le quali, a suo dire, sotto il dominio di una cultura neoliberista sono state esclusivamente utilizzate a fornire servizi per il governo a basso costo, e che invece in una società futura con connotati socialisti godranno di una maggiore ampiezza e importanza. Tale scenario, si sottolinea nel testo, lo si può già notare con la costituzione delle “imprese sociali” (social enterprises).

Ovviamente, la dissertazione di Quiggin presenta, anche per la sua brevità in relazione al vasto tema oggetto di trattazione, alcuni punti oscuri e certuni esplicitati in modo sommario. Per altri versi, essa appare un po’ troppo apologetica e dottrinaria, in particolar modo quando sistematizza con eccessiva sicurezza le specificità economiche attraverso cui il “nuovo” socialismo dovrebbe conformarsi. Il ricorrere in modo insistente all’effetto taumaturgico della “shared economy” non tiene conto di quella vena egoistica che è presente in misura maggiore o minore in ogni essere umano. Nondimeno, egli squarcia un velo sotto cui una certa élite economica di sinistra, soprattutto anglosassone, o celava le proprie argomentazioni “socialiste” in un ambito ristretto o in alternativa manifestava apertamente le proprie critiche, anche virulente, infiorettandole con sotterfugi lessicali quali “liberal”, “left-liberal”, “democrats”, “radical” e simili. Quiggin, forse perché “aussie” (Australiano) – dai modi spicci e diretti – libera finalmente la parola “socialismo” da ogni infingimento e lo fa con piglio, unita alla sua autorevolezza accademica, su un quotidiano in lingua inglese di diffusione internazionale. In ragione del suo sforzo intellettuale condivisibile o meno, a lui qualche risposta bisogna darla.

https://www.theguardian.com/business/2017/oct/09/socialism-with-a-spine-the-only-21st-century-alternative

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